Il «Grave stil nuovo» del Pindemonte

Chi volesse uno spaccato della cultura letteraria di fine Settecento e un vivo riassunto delle linee da noi tracciate, potrebbe certamente rivolgersi al ritratto sensibile e pacato del Pindemonte, alla sua sintesi poetica, che è la prima ad affermarsi con impronta sia pure stanca e slavata, ma personale e precisa nel suo centro di movimento. E in questo fin de siècle settecentesco, dominato idealmente dall’Alfieri e dalla prima apparizione foscoliana, mentre altrove il romanticismo è già pieno nella sua autorizzazione teorica e pratica come Goethezeit, Schillerzeit, epoca dell’Athenäum, la trama sottile delle direttive artistiche pindemontiane segna anche sul fondo di un temperamento ancora settecentesco, non raggelato dall’alta mania di Winckelmann, il trasferimento della crisi cesarottiana in un tentativo di precisazione di un costume sentimentale in una finitezza lineare, in una dinamica composta e perfetta. Il grafico che, uscendo fuori dal cerchio che ci siamo disegnato, svolge le sue curve esili entro l’epoca foscoliana e canoviana e s’intreccia con quelle della figura montiana, le cui radici piú chiaramente si nutrono nell’humus neoclassico, è il grafico che meglio indica come, in generale, atteggiamenti preromantici si svolsero senza contrasto interiore in atteggiamenti neoclassici che di quel primo momento piú vasto mantennero il piú originale calore. «Tra classicismo e romanticismo» hanno collocato alcuni, sulle orme del titolo piú celebre del Folkierski[1], il Pindemonte, ma piú ragionevolmente lo storico situa una esperienza cosí multipla e pur monotona sulla linea sinuosa e non drammatica di un trapasso di stagioni letterarie dall’ultimo canto di Arcadia, dal brio del sensismo e dalla precisione scientifica illuministica, a chiare tenerezze preromantiche, a candori neoclassici, ad irrobustimenti di «situazione» romantica.

Sulla base di un interesse letterario, vivo in quanto circoscritto nei confini di una gustata attenzione alla vita aristocraticamente segnata come natura civile anche nei suoi moti piú istintivi, il Pindemonte sistema il suo arricchimento di sensibilità originale e di volontà di struttura in successive posizioni di equilibrio, in sintesi letterarie tutte caratterizzate dalla sua scrittura blanda e allungata, elusiva ed attenta, ma volta per volta adeguate a successivi aspetti della maniera preromantica dalle sue origini arcadiche e illuministiche al suo svolgimento neoclassico, alle sue piú audaci punte romantiche.

È forse questa sua facilità di adesione al proprio tempo letterario e di rapido assestamento (sí che mai il suo volto si scopre in crisi e le sue linee volta per volta si precisano in una sagoma non scomposta anche se non fortemente incisa) che costituisce la sua strana monotonia in una molteplicità di esperienze, la sua assoluta mancanza di tumulto nel pieno della crisi preromantica di cui egli è cosí autorizzato rappresentante. Quella sua lontananza da impegni estremi anche quando la sua letteratura assumeva gli atteggiamenti piú nuovi (l’Arminio ad esempio), quel suo rifiuto (lui amico di Alfieri) di un passaggio da motivi di mestiere a giustificazioni piú profonde dei nuovi modi, mentre lo mette fuori dall’impeto piú chiaramente «protoromantico», precisa la sua curiosità letteraria in maniera piú indiscutibile e rende la sua testimonianza tanto piú preziosa quanto piú, su di un primo stimolo spirituale, si costruisce con un certo distacco, con una forma di superiorità dello stile che viceversa non raggiunge mai la piena padronanza del piú cosciente neoclassicismo winckelmanniano. Donde il lieve gusto contenutistico, il tepido abbandono sentimentale, il discorso diffuso, poco cristallizzato. Personalità viva nella sua intensità scarsa, ma individuabile nel suo grado e nella sua continuità, fin dalle prime esperienze rivelava il suo tono di tenuità sostenuta, di tepore intellettuale e sensibile che per un suo fremito lieve si diversifica ormai dalla sfumatura arcadica anche quando quella è la base del suo equilibrio.

Cosí nelle giovanili Stanze del cavalier Ippolito, «fra gli arcadi Polidete Melpomenio», in cui c’è aura di «arcadia scientifica» già nel nome della stessa pastorella a cui le stampe sono dedicate (la Lesbia Cidonia del famoso Invito del Mascheroni), questo elemento di sintesi arcadico-illuministica è dominato, piú che dal meccanico incontro di due linee poetiche (del resto ben preparato e riuscito nella moda del tempo), dal tono pindemontiano che se ne nutre per una luce poco brillante, come soffusa, ma non puramente funzionale alla canzonetta di maniera arcadica. Se sono estremamente indicativi, per la cultura illuministica (razionalismo non geometrico ma fisico) del Pindemonte, la sua tesi dell’Arcadia che riporta la poesia alla semplicità, ma soprattutto alla verità scientifica, e l’esperimento della rifrazione dei colori imprestato dall’Algarotti nel suo esemplare dei Versi di tre famosi autori in uno spregiudicato pastiche letterario, è piú importante notare che su questa poesia arcadico-illuministica la natura pindemontiana porta la volontà preromantica non di definizione, ma di utilizzazione a fini di lieve incanto fantastico, mentre già si affaccia nella poesia pindemontiana non una lucida incisività quanto piuttosto una approssimata e a volte quasi prosastica e lenta discorsività. Anche questa in funzione non di illuministica definizione, ma di colore tenue, quasi gessoso e bisognoso dunque di tratti realistici, di linguaggio fra comune ed eloquente per una eleganza tutta sua, per una distensione tra familiare ed eletta:

di quella cetra, che send’io fanciullo,

mi pose entro la cuna il mio Catullo[2].

Nelle Stanze l’esperimento newtoniano dell’iride aveva provocato questa ottava ormai poco illuministica anche se cosí vicina ai versi noti dall’Algarotti

(Ben rammentar dovete, Arcadi, quando

nell’affumato, e tutto atro a vedersi

tugurio fea, che, per cristal varcando

si spiegasse ne’ suoi color diversi

candido il lume, ed ora colorando

gisse diversamente i panni avversi,

ora, misto di nuovo ogni colore,

fesse apparir di nuovo il bel candore),[3]

ma nella Fata Morgana, poemetto raccolto fra quelli didascalici da posteriori editori[4], l’equilibrio arcadico-illuministico si precisa sempre meglio nella sua natura di sintesi operata da uno spirito preromantico senza rivoluzioni e senza crisi, ma joubertianamente volto a utilizzare i dati culturali di una poetica a propri scopi, che su quelli fioriscono senza sconvolgerli o degradarli a involucro repugnante.

C’è addirittura una descrittività luminosa (non brillante), quasi aleardiana, fra abbandono, prezioso particolareggiare e provvisorietà prosastica travolta da un’onda di cadenza musicale:

... ver l’altera

Partenope solchiam l’onda, cui fea

lucida e crespa il bell’argenteo lume

de la tacita luna. Al fuggitivo

lito io spesso mirava, e di Morgana

non volgea sí le meraviglie in petto,

che non volgessi, ed ancor piú le care

mura, e il viso gentil, gli atti soavi,

lo sguardo in sé raccolto e il parco labbro

il rossor vago e la pudica fuga;

tutta del compagno Astro, che piove

sí dolce in suo cheto vagar tristezza,

mesto e lieto io sentia nel cor la forza.[5]

Un classicismo omerizzante, un po’ alla Hermann und Dorothea, con qualcosa sempre di sciatto e di goffo in una ricerca non maniaca di elettezza

(... fuma

la mensa, e porporeggia il terso vetro),[6]

lucida senza pretesa autonoma; uno sviluppo poetico in cui la descrizione scientifica di origine illuministica (viva del resto a suo modo perfino nella Feroniade montiana) diviene fiabesca, leggera, tesa a risultati ben superiori, per forza fantastica e per volontà di «poesia spirituale», a quelli del descrittivismo settecentesco:

ed altre varie forme e pinti aspetti,

che vengono e che van, tornan, dan loco

a pinti aspetti e ad altre varie forme,

qual fosse pei deserti ampli del cielo

un rapido varcar di mondo in mondo.[7]

Che sembra preannuncio del «vaporoso» romantico (come tutta la breve storia del Broken) e del «bello» romantico, in cui la mescolanza di orrido e di piacevole assume in confronto del «rococò» una funzione di «bello tenebroso» che qui naturalmente manca nel suo aspetto piú estremistico, rendendo piú tenue l’idillio preromantico sospiroso, ricco di un’ansia non resa cosciente.

Cosí natura, grande ancor se giuoca,

spesso gode accoppiar l’orrido e il bello,

somma pittrice in contrapposti...

Pende su fresca valle arida rupe,

tra piagge di bei fior mugghia un torrente,

tal vedrai di giovinetta donna

sotto viso gentil rustiche voglie,

in Angelico petto un cor d’Inferno.[8]

A questa conclusione giunge il descrittivismo scientificizzante che permetteva al Pindemonte un equilibrio della sua poetica preromantica su di una solida base letteraria senza restarne per altro prigioniera o falsata. E senza urti poteva affiorarvi quel senso malinconico della vita che passa come controllo di musica sentimentale, che porterà poi elegia nell’idillio preromantico piú qualificato.

Tu ancor passeggi ne l’uman cammino

il sentier de le rose: io già tra foschi

arbori muovo; i giorni miei piú vaghi,

o che mi parver tai, passaro...[9]

Se poco può dirci il poema Gibilterra salvata che il Pindemonte stesso considerò opera immatura, e in cui il descrittivismo scientificizzante riconferma come in questi primi periodi le linee letterarie illuministiche gli siano servite a calarvi un’esperienza poetica di discorso piú complesso, prima della soluzione originale delle Poesie e prose campestri[10], anche il poemetto La Francia, cronologicamente posteriore alle Poesie campestri, indica, in un racconto di cauti impeti di libertà, ricerche di accordi di colori, di descrizioni paesistiche

(Di porpora soave e di bell’ambra

splendea già tutto l’Occidente: ed io

solitario e pensoso a lenti passi

prendea là del cammin, ’ve mal suo grado

tra biancheggianti Ostelli, e verdi Templi

da Parigi fuggir sembra la Senna)[11]

di fronte alle quali il gusto di discorso cui Pindemonte si preparava in queste prove acquista il suo valore funzionale ben diversamente dalla tecnica discorsiva settecentesca in cui l’essenziale è la decorazione volgarizzatrice. Vero è che il discorso prevarrà a un certo punto nel Pindemonte sia nelle sue prose di Elogi, sia nei suoi Sermoni ed Epistole, ma anche là, con intonazioni particolari, come pretesa di lirica media e utilizzazione di classicistica composizione.

Composizione classicistica che il Pindemonte cercava nelle traduzioni come quella dell’Inno a Cerere, mentre, prima delle Poesie campestri, una discussione critica gli permetteva di chiarire nella sua forma poco incisiva la sua posizione nei riguardi della letteratura del tempo, nei nuovi limiti di equilibrio riconosciuto e di rinnovamento diversamente autorizzato. Messo in discussione dall’Accademia di Mantova, il quesito sul gusto presente dette luogo a una polemica letteraria incentrata soprattutto sulla imitazione delle letterature straniere, sulle traduzioni, sui neologismi, sulla confusione dei generi come conseguenza dell’abbandono di una piú salda linea tradizionale. In una mescolanza ormai a noi nota di reazioni a motivi vecchi e nuovi, di insorgente neoclassicismo e di razionalismo insieme romantico e accademico, di rivolta all’illuminismo in nome del nuovo amore del concreto e del vecchio spiritualismo confessionale, è soprattutto la questione veramente preromantica delle traduzioni («fiumana lutulenta e fangosa» secondo le parole di Matteo Borsa) che campeggia e richiama i ragionamenti incerti e contorti del Borsa e dell’Arteaga, del Rubbi, del Pindemonte, testimoni interessantissimi di questo periodo poco sicuro, perché in cerca di nuovo equilibrio culturale, cosciente di una crisi radicale nella letteratura italiana.

Mentre l’Arteaga propugnava il rinnovamento della lingua poetica su base schiettamente preromantica e con una precisa indicazione dell’esempio cesarottiano («sbrigarsi dai ceppi dell’autorità, creando nuove attitudini nello stile proporzionate alla novità delle idee, siccome ha dovuto fare il valoroso signor abate Cesarotti nella versione d’Ossian»[12]), lamentando la mancanza di «guide» e di certi «rami di letteratura» per i quali «la lingua non ha ancora trovato lo stile» (tali sono, ad esempio, «le opere dette in Francia di sentimento, cioè quelle, dove una piú minuta analisi delle passioni, ed una piú squisita anatomia del cuore fanno, a cosí dir, germogliare un’abbondanza d’idee piú individuali e distinte, le quali per esser comprese a dovere hanno bisogno di vocaboli nuovi che presentino a chi ascolta non solo il senso generico dell’idea; ma le differenze altresí piú minute»[13]), e il Rubbi rinchiudeva il problema in un angusto e rissoso italianismo che in misura diversa vien sempre a turbare nella sua equivoca natura reazionaria e preromantica l’impostazione della nuova letteratura, il Pindemonte, nel suo Discorso sul gusto presente delle belle lettere in Italia, iniziava con un esercizio di discorso poetico omerizzante (contributo anch’esso a quella contaminazione ossianesca-omerica cosí essenziale al verso del romanticismo neoclassico), che lo induceva ad una dichiarazione poetica di imitazione della natura in un senso di candore e di semplicità che non è il nitore classico né la precisione definitoria illuministica («intendo per bellezza grande una imitazione esatta ed evidente della piú semplice e piú vera natura; ed aggiungo che a pochissimi è dato l’assaporare questo genere di schietta ed innocente bellezza...»[14]). Per giungere alla conclusione pratica di una Accademia italiana che dovrebbe giudicare e agevolare il buon gusto con commenti di poeti («parendomi che un Ariosto, o un Tasso, commentati, non da un erudito, ma da un uom di gusto e filosofo, sarebbe una eccellente arte poetica»[15]), con opere di critica piuttosto che con regole astratte, il Pindemonte, autore di «grazie vereconde e modeste»[16], svolge un tessuto lento in cui l’intento della «bella semplicità»[17] («senza semplicità non trovasi sublimità»[18]) si avvalora joubertianamente di una coerente ed insistente presentazione di grazia non esaltata, di «quella pompa che appena si mostra», reagendo all’illuministica precisione individuata nella lingua francese, come linguaggio filosofico, antipoetico, complicato dall’esempio dell’intellettualismo tedesco. La soluzione è pindemontianamente temperata: presenza delle letterature straniere, ma non nella mediazione francese implicante uno svisamento razionalistico e un’influenza negativa sulla lingua italiana: «Le pronte e buone traduzioni farebbero che meno si leggesse di scritto in francese, ciò che tornerebbe in vantaggio grande per l’italiano»[19]. Traduzioni d’altronde da curare appunto per la loro enorme e decisiva importanza, dato che il Pindemonte, equilibrato, ma sicuro preromantico, mentre rileva i pericoli di una influenza straniera indiscriminata, l’ammette come necessaria se resa efficiente in un coerente italianizzamento.

Era insomma l’autorizzazione migliore della crisi letteraria preromantica e della sua soluzione non reazionaria; come le Poesie campestri indicavano concretamente un nuovo equilibrio.

Si sa che il Pindemonte vive nella memoria dei lettori italiani per una poesia e piú per un inizio di strofa che pare rapprendere in una linea breve e miniaturistica, dunque catalogabile come rococò, un movimento di tenerezza preromantica non esente da una mitizzazione fra arcadica e di grazia neoclassica:

Melanconia

ninfa gentile.

In realtà la grazia arcadica si è consumata in languore e in finezza lineare e la sintesi, come non può prescindere dal candore classicheggiante, vive però in termini preromantici di fronte a cui ogni altro elemento decade a temperamento di un sostanziale animus poetico e di un programma che mira, come un po’ avviene anche nel Bertola, ad una tenue musica sentimentale preparata e appoggiata ad un fondo di cultura letteraria (gli inglesi) omogeneo e stimolante.

E giustamente l’esile distico diventa emblema del Pindemonte e di una stagione poetica desiderosa insieme di una misura e di una tensione, rappresentata dal simbolo suggestivo e perfino dallo stimolo fonico della Melanconia. Gli urti piú passionali, che pure vivevano nelle poesie degli «estremisti», son qui smorzati, rappresi in brevi sospiri soavi, in ritmi di sublime patetico e pittoresco; non piú il semplice piacevole arcadico o sensistico, non ancora il bello tempestoso dei romantici di cui già però l’esperienza piú rozza è scontata nelle prove degli estremisti e ridotta in un equilibrio aristocratico.

Dal cerchio di una sensibilità leggermente trasognata di malato o di convalescente (perfino verificabile in un presente stato fisico del poeta «in tempi che una scomposta salute minacciava non leggermente, benché di lontano, i suoi giorni» – dice la lettera introduttiva di Elisabetta Mosconi –), nascono un gusto di rallentato, di «sentimentale» abbandono (e non distensione nel suo senso di lucida pace), un trepido ritmo elegante quanto piú stentato e apparentemente negletto, che il neoclassicismo conclude nelle Poesie campestri; una ricerca di equilibrio preromantico che il Pindemonte non otterrà in un tono piú solenne o piú parlato. Si può dire del resto che la sua natura un po’ slavata e pur ricca di capacità formali e di una larga inventività corrisponde centralmente al tono cercato in questa sintesi letteraria, dove il pittoresco e il sentimentale si accordano nella fase di una mediocre forza interiore a cui ripugna una rottura senza soluzione. Solitudine, malinconia, che altrove servono a rompere l’edonismo settecentesco, qui si posano come soavi miti la cui suggestione non supera i limiti della tenerezza musicale e della composizione pittorica del paesaggio.

E lo stesso mito della melanconia, centro di immagini di moderata religiosità naturalistica e moralistica («cuor puro»), di gradazioni coerenti di colore («quel di viola tuo manto»), di una coscienza di poetica nuova in quanto pensosa musica di accordi interiori («il nuovo grave mio stil»), subisce una preziosa modifica tutta pindemontiana (Pindemonte vive di trovate poco appariscenti e sensibili). Meglio che melanconia «leucocolia»: «una dolce melanconia, leucocolia, ch’è come dire una bianca tristezza»[20].

Ma nelle Poesie campestri non si può dire davvero che tutto si risolva in miti appena accennati e in velleità di «nuovo grave stil». L’originale mondo preromantico del Pindemonte («bello morale e sentimentale» trasposto tutto in tenue sensibilità visiva in pace di colori di luminosità attutita che vincono una tensione sentimentale e se ne nutrono[21]) vive anche al di là delle esili strutture piú riuscite, anche come originalità architettonica: La Melanconia, Alla luna (ricchissima di movimenti e tinte squisite e quasi eccessivamente preziose:

talor quell’onda blanda,

tuo specchio, ti consiglia,

quando la tua ghirlanda

di ligustro e giunchiglia,

se turbolla per via rabido vento,

tu ricomponi con la man d’argento...[22]

... mutasi allor la negra

scena in un punto, e terra e ciel s’allegra:

e con piacer l’erbette,

pria tutte a brun dipinte,

mirano le caprette

in pallid’or ritinte...).[23]

Ma piú difficilmente la poetica del Pindemonte tende a precisarsi in un rischio cosí evidente di decorazione preziosa, e la sua luminosità un po’ sfatta, quell’onda poco sonante e sfrangiata, nutrita di sentimentalismo preromantico (sempre arginato sui limiti di ogni possibile estremismo:

Ma stringer troppo e scompigliar qualche alma

questa scena potria...),[24]

si appoggiano ad una immaginosità pittoresca poco incisiva, dilagante entro il tessuto poetico, anche se controllata da una volontà di chiusura classicistica che viceversa si allenta tanto piú quanto piú il Pindemonte si avvia al discorsivo neoclassico e abbandona la sottintesa misura della canzonetta che non manca mai nelle Poesie campestri[25]. Quel gusto del pittoresco paesistico che si trova esplicito e in forma di quadretto autonomo in molte delle poesie «varie» (Passando il Mont-Cenis, Cascata tra Maglan e Sallenche, Caduta del Reno, Ghiacciaie di Boissons e Montavert nella Savoja, Lago di Ginevra) e che si introduce nel pretesto dei paragoni, come la piú volte ripetuta immagine delle acque dell’emissario del lago di Ginevra, coincide con la richiesta di uno stato di trasognamento estatico che, dentro misure per nulla trascurate, porta la tensione di una trascrizione di visioni superiori e ineffabili.

«La estatica tacente alma pensosa»[26] è l’aggiunta ineliminabile delle varie dichiarazioni pindemontiane sull’indole del poeta:

Non altro al mondo che una dolce e pura

anima egli vantò, cui forte piacque

l’infinita beltà della Natura.[27]

A cui del resto seguono subito versi indicativi per il senso romantico del primato assoluto della visione, dell’inadeguatezza dell’espressione alla visione.

Di cantarne talor desio gli nacque;

ma non fu nulla allato a quel che scorse,

ciò che ne disse; e sempre a sé dispiacque.

Cosí, insieme a quella grazia fra aristocratica e popolaresca che scivola a volte nell’approssimativo e nel monotono, nelle Quattro parti del giorno, pezzo forte delle Poesie campestri (e l’ottava assai gradita dal Pindemonte supplisce là alla misura della canzonetta), trionfa un’onda di immagini luminose e languidamente sonore che soffocano per troppa abbondanza e per troppa tenerezza, ma, in questo limite di valore realizzato, rappresentano la direzione del Pindemonte piú esuberante nella sua sintesi preromantica. Nelle odicine-canzonette questa tensione dà risultati piú alti, e in un abbandono piú largo (e retorico) indica in sviluppo la forza piú naturale del poeta degli «estri melanconici» e delle visioni estatiche della natura.

Anche nelle Prose campestri il programma del Pindemonte rivela la sua volontà di sintesi preromantica, fra gli elementi della discorsività accademica di cui dette saggi in verità piuttosto negativi negli Elogi di letterati italiani (in cui solo come spunto iniziale si potrebbe ricercare quella specie di Joubert italiano a cui piuttosto ci autorizzano le linee piú generali ricavabili dalla lettura completa delle opere pindemontiane) e quelli di un nuovo atteggiamento di sensibilità paesistica e sentimentale che si fondono in tono riflessivo e pittoresco sulla comune base sentimentale. A volte la discorsività settecentesca torna a prevalere moralistica e inconcludente, a volte quel gusto di periodo lievemente luminoso, attento e insieme abbandonato, che meglio si riconosce in misura e visione colorita nelle Poesie, offre l’avvio ad una prosa sensibile e raffinata (ma non piú rococò, assai meno arcadica di certe prosette bertoliane), in cui la tensione pindemontiana trova sfumature di superamento, di clausola non esteriore, ben lontane dalla sapienza di un classicismo che avesse ignorato la piú complessa crisi preromantica.

La sensibilità è esplicitamente invocata (e cosí lo stato tra convalescenza e pericolo di cui il Pindemonte non trascura di parlare nella prefazione piú tarda – 1817 contro 1784 –[28]) e, con qualcosa di lezioso che nasce dalla contrapposizione elegante e tradizionale fra i piaceri della campagna e della solitudine e di quelli della società cittadina, domina queste paginette di incanto in cui la cadenza sentimentale vince lo scorrere tranquillo della intelligenza che escogita le sue trovate esitanti fra humour delicato e sentenza poco impegnativa: «quelle valli e montagne, que’ boschi e prati, quell’ombra e quel sole, que’ contrapposti di ameno e di selvaggio, di ridente e di orrido, quel biondo de’ campi in mezzo alle tante gradazioni della verdura, e sotto un gran cielo azzurro, o di nubi riccamente dipinto, e talora nelle onde lucide ripetuto, e gli augelli, e gli armenti, e i coltivatori che dan moto e vita a tutta questa sí gentile, sí grande, sí varia scena... ah! chi può descriverla? Chi può parlare di quegli enti nuovi onde popolata mi apparisce, di quegli enti fatti secondo il mio cuore? E che importa che fantastici sieno, se la lor compagnia mi torna sí cara, e mi gitta nell’estasi la piú deliziosa?»[29]. E piú intensamente e modernamente: «Quando m’entra nelle stanze per la finestra l’odor del fieno tagliato, non è già il solo piacer de’ sensi, ch’io gusto, benché scossi molto piacevolmente: ma in quell’odore io veggo come una descrizion compendiosa ed energica di tutte le delizie della campagna. Se qualche mattina il canto degli augelletti piú forte del solito mi risveglia, quel ch’io non vorrei che per altra ragione accadesse, non è già quel canto che allora mi piaccia, ma veggo quasi epilogata in esso la piacevol giornata, che passar dovrò. Tanto piace all’anima l’essere avvisata improvvisamente, e d’ogni cosa in un solo istante!»[30].

Edonismo, certo, quel sottile edonismo sempre vivo nel preromanticismo meno estremistico (e del resto la bellezza come gioia è l’insegna stessa di tanto romanticismo attraverso il grido di Keats: «A thing of beauty is a joy for ever»), ma nel Pindemonte delle Prose campestri esso ha una precisa funzione di tensione sentimentale, nostalgica, e porta un’animazione sufficiente e necessaria alla saggezza della sua moderazione spirituale e della sua formula artistica: funzione di calore che piú tardi verrà a diminuire con chiaro danno dei risultati pindemontiani e che però fin d’ora, sulla base del sentimentalismo preromantico, si associa ad una aura spiritualistica, religiosa, mai eterogenea, e piú tardi accentuata fino a diventare guida della poesia insieme al motivo moralistico. «Sí, questa è la bella sorte dell’uomo, che saper posso anche senza il libro de’ filosofi, anche senza quel libro che ogni filosofia superò, benché l’uno me la faccia sperare, e l’altro la mi prometta: bastami guardar nel mio cuore, ove trovo un principio non men naturale, che la ragione, ma piú forte, piú inalterabile e piú sentito: trovo un desiderio non mai pago, e rinascente sempre, d’una che sempre cerco, e non trovo mai, vera e perfetta felicità»[31].

Fuori delle Poesie e prose campestri, questa animazione edonistica e spiritualistica cerca nelle Epistole e nei Sepolcri una sorta di contemporaneità entro una sempre maggiore lontananza delle forme arcadico-rococò in un classicismo piú formato e robusto. Non è tanto probativa in tal senso la dichiarazione che la apparenta tradizionalmente alla poetica di Chénier

(antica l’arte,

onde vibri il tuo stral, ma non antico

sia l’oggetto in cui miri,

vv. 361-363 dei Sepolcri), quanto l’esplicita volontà dei Sepolcri (già nella prima idea dei Cimiteri), delle Epistole, delle novelle in prosa e in versi (non tanto la secca e illuministica Abaritte quanto Clementina, Foscarini e Contarini), di sfuggire ad una poesia della letteratura di tipo montiano e (malgrado l’importantissimo esercizio e la prova fortunata della versione della Odissea) di mantenere il classicismo a scuola e pratica stilistica piú che a suggestione di modo poetico e a termine di tensione ideale, winckelmanniana. Certo non mancano prove «canoviane», come il senile (1826) Teseo che uccide il centauro o i sonetti Per una Psiche giovinetta... con la farfalla in mano del celebre statuario Canova, Al medesimo per questa sua Psiche, Per l’Ebe del prelodato scultore, Al Perseo dello stesso, ma da qui, e con ampio esame dell’Odissea, si aprirebbe un discorso sul Pindemonte neoclassico che a noi interessa solamente calcolare come elemento della sua sintesi piú vasta e fondamentalmente preromantica, anche se poeta neoclassico fu considerato dai contemporanei, compagno del Monti e magari superiore al Foscolo.

Mentre nei Sermoni il gusto del discorsivo e del retorico, fra Gozzi e Parini (ma con quale minore incisività), coincide davvero con una stanca colorazione classicistica senza una vibrazione che superi un certo fiacco nitore, è l’animazione preromantica che avviva le altre produzioni accennate e le svolge in una poetica coerente al suo bisogno di equilibrio vivo, di sintesi di esperienze operanti nella cultura letteraria preromantica.

Cosí l’Arminio (1804), con davanti l’esempio dell’ammiratissimo Alfieri, è pur sempre, sulla viva esperienza della poesia bardita klopstockiana e ossianesca, un’opera condotta nell’atmosfera di secondo Settecento, e il suo motivo piú vivo non è tanto l’eroico, che del resto vive soprattutto nel tentativo dei cori cesarottiani e melodrammatici, quanto la mesta elegia che si introduce nelle parlate di elogio funebre e perfino nelle parlate del tiranno deluso:

Come tutto cangiossi a me dintorno!

Lucidi sogni, aurate larve, dove,

dove a un tratto fuggiste? E tu, mio Nume,

gloria, che sei tu alfin? Fatica e duolo...

O Baldèro, Baldèro, io, te perdendo,

tutto perdei: nulla io piú curo al Mondo;

del Sole odio la luce, e questa oscura

fiaccola breve, che si chiama vita.[32]

La tensione sentimentale, nostalgica prevale su ogni tentativo di poetica eroica e l’idillio elegiaco preromantico, con il suo trepido inno alla morte e alla fuggente felicità, porta dovunque le sue cadenze, i suoi colori autunnali, cui la pallida luminosità, la «pigrizia» ritmica pindemontiana danno una particolare e segreta suggestione.

Ed è per questa presenza non certo valutabile contenutisticamente, ma come elemento calcolatissimo della sua poetica del «nuovo grave suo stil», che le Epistole (situate nel pieno della sua attività matura fra il 1800 e il 1803[33]), nel loro tepido alone di società tenera di amici e di scomparsi, e di donne come la Albrizzi o la Mosconi, o la Lesbia Cidonia, e di letterati come il Bertola, hanno una loro vitalità notevole anche se non compatta come quella delle Poesie e prose campestri. Ogni possibile traccia di idillio arcadico è ormai definitivamente abolita da questa piú intensa suggestione di affetti nostalgici, a cui fa da rinforzo il lamento sulla guerra devastatrice. L’elegia nel suo tono di eleganza e di colloquio (mai assente nel Pindemonte) si sviluppa in una ricerca attenta di linee allungate e lente, di una eloquenza che a volte si fa vacua solennità (l’Epistola al Maffei), ma piú spesso serve da alone letterario di piú intensi e radi movimenti poetici, come nell’Epistola al Dal Pozzo un vivo nucleo di poesia (l’usignolo che si lamenta per i figli uccisi) si allarga in un’onda piú esteriore ed eloquente che ne risente lo stimolo iniziale, con una possibilità di largo potere suggestivo che bisogna riconoscere al Pindemonte, a questo attento poeta in cui il calcolo di finitezza classicista è superato da una piú sottile volontà di incanto poetico. E tutta la bella epistola ad Elisabetta Mosconi è agitata dal movimento fra lieto e malinconico (uno degli esemplari piú alti di poesia preromantica) che asseconda l’immagine delle due fanciulle:

Ambe di beltà fresca, ed ambe ornate

d’amabile virtú, dar però volle

all’alme loro il Ciel tempra diversa.

Pel sentier della vita il pie’ Clarina

muove danzando: innanzi a lei stan sempre

alto su l’ale d’or lieti fantasmi,

e tutte innanzi a lei ridon le cose.

Piagge abitate, aperti campi, siti

cerca lucenti: o de’ piú ricchi prati

nel variopinto sen tesse ghirlande,

non di vïole pallide, o di foschi

giacinti, ma scegliendo i fior piú gai.

Giorno cosí d’oscure nubi avvolto

non sorge, che pur chiaro a lei non sembri.

Spera piú che non teme; e quando ascolta

chi dell’uman vïaggio i guai descrive,

le par che molto al vero aggiunga, e voglia,

quasi tragico autor, compunger l’alme.

Valli rinchiuse, opachi boschi e muti

cerca Lauretta: il Sol, che muore, attenta

guarda, e in mar chiude: ove con rauco sente

incessante rumor cadere un’onda,

fermasi; e l’invitato orecchio porge;

il collo alquanto piega, e il guardo innalza,

nelle varie colorate nubi

l’estasi pasce, che le siede in volto.

Della femmina errante, in cui s’avviene,

la dolorosa storia ascolta, e crede:

ode squillar sul monte il vigil corno

de’ cacciatori, e all’inseguita lepre

una lagrima dà. Ma quando splende

in notte estiva la ritonda Luna,

dalla finestra, onde mal può staccarsi,

dell’occhio e del cor l’argenteo segue

tacito carro, e sé medesma oblia.[34]

Anche nei Sepolcri – e si noti come l’aura poetica del Pindemonte è precedente idealmente alla esplosione romantica piú decisa e al neoclassicismo piú maturo – la poetica preromantica, in un tenue legame compositivo (non i tradizionali «voli» del Foscolo), costruisce intorno a spunti pittoreschi sentimentali, con una tecnica di controllato abbandono in cui l’onda di una tenue musica, di una luminosità un po’ sfatta e sfrangiata prevale su precisazioni classicistiche, su audacie linguistiche, poco approfondite (cosí lontano da Foscolo!), su quell’impasto di nobiliare sprezzatura, di approssimazioni discorsive e di sensibilissime raffinatezze:

Il verde orror della foresta[35].

E giunge a quella forma di estasi languida e sentimentale che il Pindemonte guarda come a sua meta suprema quando, prescrivendosi di cantare la beltà saggia e la virtú gentile[36], sceglieva la via della suggestione piú che quella della perfezione precisa e lucida:

E quando il piú vicino astro su i campi

la smorta sua luce notturna piove,

pur t’abbia il bosco; candida le vesti,

e delle rose, che di propria mano

per lei spiccasti, incoronata il capo,

la tua sposa vedrai tra pianta e pianta;

ambo le guance sentirai bagnarti

soavissime lagrime, e per tutta

scorrerti l’alma del dolor la gioia.[37]

Nostalgia di una persona cara in un idillio di natura ed estasi di edonismo spiritualismo. Qui ancora una volta conduce, e a linee di poesia ondulate e tremanti di modesta luminosità, l’indagine sulla poetica preromantica del Pindemonte che pare cogliere la sua affermazione piú conseguente nel finale dei Sepolcri: idillio elegiaco della scomparsa di Elisa e tensione ad una vittoria di estasi spiritualistica:

Sparí per sempre

quel dolce tempo, che solea cortese

l’orecchio ella inchinare ai versi miei.

Suon di strumento uman non v’ha che possa

sovra gli estinti, cui sol fia che svegli

de’ volanti dal ciel divini araldi

nel giorno estremo la gran tromba d’oro.

Che sarà Elisa allor? Parte d’Elisa

un’erba, un fiore sarà forse, un fiore

che dell’Aurora a spegnersi vicina

l’ultime bagneran roscide stille.

Ma sotto a qual sembianza, e in qual contrade

dell’universo nuotino disgiunti

quegli atomi, ond’Elisa era composta,

riuniransi, e torneranno Elisa.

Chi seppe tesser pria dell’uom la tela,

ritesserla saprà: l’eterno Mastro

fece assai piú, quando le rozze fila

del suo nobil lavor dal nulla trasse;

e allor non fia per circolar di tanti

secoli e tanti indebolita punto,

né invecchiata la man del Mastro eterno.

Lode a lui, lode a lui sino a quel giorno.[38]

Se nelle Poesie e prose campestri l’equilibrio preromantico era perfetto, conviene dire però che in certe parti delle Epistole e dei Sepolcri si tratta di un equilibrio piú ricco, di una poesia piú complessa, anche se sul punto di sfarsi in monotonia e in stanchezza senile.

Se là si poteva equivocare su di una certa arcadia preromantica, qui non si può piú azzardare questa chiusura e l’offerta della sua cultura letteraria (piú che le numerose citazioni di fonti inglesi e francesi, una volta di prammatica per ogni suo piú modesto pezzo di materiale poetico) è stata da lui accolta nella piú vasta ed equilibrata poetica preromantica italiana. Anche le punte piú chiaramente romantiche sono del resto trattenute in una atmosfera di annuncio e di equilibrio settecentesco e mentre va notato che la «novella in versi» Teresa Contarini e Antonio Foscarini (1792) è preceduta da componimenti poetici di nucleo narrativo romantico, come la Lettera di una monaca a Federico IV e Sul ritorno del capitano Parry, la novità e la precedenza della novella stessa rispetto alle novelle romantiche corrisponde alla stessa incertezza di intonazione fra popolare ed aulica, in un piano di divertimento sentimentale anche un po’ ingenuo, come avviene al Pindemonte (vedi Arminio) quando esce dalla possibilità piú sua della canzonetta e della elegia, del colloquio lirico. L’urto di forme plebee e letterarie (ottimo pretesto per uno studio alla De Lollis) scuote le ottave della novella in un andamento un po’ traballante, in una adesione e lontananza alternata della piú impegnata formula narrativa di uno sviluppo piú naturale di elegia.

Nota la bella e lagrimosa istoria,

non si trovò di tempra un cor sí grossa,

che nol piangesse; e fu la sua memoria

d’ogni di reità macchia riscossa.

Ahi nulla giova cosí tarda gloria

a le ceneri fredde e a le nud’ossa!

Nulla questa tessuta mia corona

di fior còlti su l’Italo Elicona.[39]

La tendenza discorsiva e sentenziosa prevale a un certo punto per mancanza della piú genuina animazione preromantica e l’accademica prosa degli Elogi trova un equivalente nella versificazione dei Sermoni (usciti nel 1819), tentativo non riuscito di humour fra pariniano e gozziano, di sentenzioso moralismo in polemica piú stanca contro debolezze di società e mescolati motivi di costume letterario.

Ma in uno dei componimenti senili (1820), prima di una piú manifesta adesione al neoclassicismo, nel Colpo di martello, in un fare stanco, e in un colore sempre piú stinto e sbiadito, la moralistica discorsività perde l’intenzione satirica, saputa, e quasi un’eco smorzata della poesia piú valida torna a stimolare la volontà del vecchio poeta. Come da una lontananza annebbiata, quel vecchio fascino di una tensione sentimentale sempre piú spiritualistica provoca, in un periodare scarno e poco sonoro, movimenti piú brevi di musica, di onda fantastica, di pallida luminosità.

Dove sei, dove, o Gioventú? Mi splende

cosí davanti agli occhi il tuo sorriso,

che sembrami l’altr’ieri averlo visto,

e pur molto è, che mi dicesti addio.[40]

Il vecchio poeta, che Byron giudicò sommariamente un bigotto senza piú vitalità, ha sviluppato nel suo sicuro spiritualismo preromantico («l’uomo sta piú nel cor che nell’ingegno») e in un sentimentalismo meno abbondante e generoso, in un uso piú sobrio di immagini pittoresche

(col Sol cadente seppellir nel mare

un desir basso, e col sorgente Sole

un predato desir trar fuor dell’onda;

rifiorir di dolcezza ad ogni aprile,

ad ogni estate riscaldar d’affetti,

mostrar l’autunno non pria visti frutti

di sapïenza...),[41]

un tenace, insistente, assorto ricorso (coerente al suo bisogno religioso ormai esplicito e dominante), piú che ad immagini apertamente sensuose, quasi ad una sensuosità piú segreta, suggerita da uno stato di commozione mistica che rimane però sempre nell’ambito chiaro della letteratura, della sua vera e propria religione delle lettere.

Ma sono ultime luci, estreme prove di un equilibrio, di una poetica sempre attiva nel ricostruire un equilibrio preromantico anche in un sostanziale sfacelo della piú sicura poesia pindemontiana.

E, ripeto, di una religione delle lettere, di una fedeltà e di una purezza letteraria di fronte a cui altri preromantici appaiono dilettanti e semplici segni di una moda e di una esigenza che li supera. Questo poeta, che richiede lettura e rilettura per scoprire sotto la sua struttura piú usuale e monotona un autentico dono poetico, che trattiene le sue preferenze in una costante rete di protezione, di moderazione e di autorizzazione in cui la novità – il grave nuovo suo stil – sia piú velata e garantita che vittoriosamente e polemicamente affermata, che rifiuta ogni conseguenza estrema facendo dichiarazioni contro la mitologia, ma ribellandosi alla rottura delle regole e alla giustificazione del genio, affermando in un riecheggiamento vichiano[42] l’irrazionalità della poesia, ma distinguendo con cura Shakespeare, «bambin sublime», e l’arte del «saggio Addissono»[43], non era davvero una figura ambigua di contraddittorio orecchiante, ma anzi il piú genuino rappresentante di una civiltà letteraria in crisi, fermata in successive sintesi che danno notevoli risultati poetici.

Tanto che nel passaggio fra poetica illuministica e poetica romantica, se gli altri non sono che tentativi frammentari, lo sforzo del Pindemonte costruí una poetica preromantica a suo modo completa anche se esile e timida.


1 W. Folkierski, Entre le classicisme et le romantisme, Paris 1925.

2 Stanze di Polidete Melpomenio, Roma 1779, p. 13.

3 Ivi, p. 10.

4 Ad esempio in Poemetti didascalici, Milano 1823, vol. XI.

5 Versi di Polidete Melpomenio, Bassano 1784, p. 71.

6 Ivi, pp. 59-60.

7 Ivi, p. 50.

8 Ivi, p. 62.

9 Ivi, pp. 71-72.

10 Discorso piú complesso e ricerca insieme di logica sintassi e di effetti pittorici in un tessuto di efficacia:

Il lume ch’esce

de l’incendio, anzi che sgombrarle, insegna

le sovrastanti tenebre, e da tanti

riflessi acceso avvampar sembra il mare.

(Gibilterra salvata, Carattoni, Verona s.d., p. XXIV)

11 I. Pindemonte, La Francia (Parigi 1789), in Poesie originali, Firenze 1858, p. 62.

12 Dialoghi fra il sig. Arteaga e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia 1786, p. 42.

13 Ivi, p. 28.

14 Volgarizzamento dell’Inno a Cerere, Bassano 1785, p. IV.

15 Ivi, appendice, p. 105.

16 Ivi, p. 59.

17 Ivi, p. 51. Il raccordo fra traduzione e dissertazione è appunto nella «semplicità». «Si tratta in essa del modo di riformare il gusto, e si raccomanda particolarmente la semplicità dello stile, onde non sarà fuor di luogo, come mi pare, se verrà dietro ad una poesia classica di stile semplicissimo e del gusto piú sano».

18 Ivi, p. 52.

19 Ivi, p. 91.

20 Poesie e prose campestri, Verona 1817, p. 18. Questa ed. sarà citata come Prose.

21 Si noti in proposito l’esplicita testimonianza di un legame originalissimo in questo senso fra godimento visivo e sentimentale moralità:

Sol chieggo che alle corte ed ultim’ore,

quando vien l’anno della vita meno,

quello almen tra i miei sensi, alle cui porte

sta l’alma per vedere, io serbi forte.

Ma s’io, ciò, Sole, ascolta ancor s’io mai

alla madre cessar l’omaggio antico

di rispetto e d’amore, o ne’ suoi guai

dovessi un dí non ascoltar l’amico;

se fosse per levar non finti lai,

senza un sospiro mio, l’egro mendico,

o da me in vista nulla men dogliosa

l’orfano per partire, o l’orba sposa;

possano d’improvviso entro un eterno

orror notturno gli occhi miei tuffarsi,

ed al tuo, sacro Sol, lume superno,

di trovarlo non degni, invan girarsi:

né piú quindi apparisca a me l’alterno

delle varie stagion rinnovellarsi,

né sul pallido ciel mirar vicino

goda il ritorno del gentil Mattino.

(Il Mattino, str. XX ss., in Poesie originali cit., p. 23)

22 Alla luna, vv. 35-40, in Poesie originali cit., p. 9.

23 Alla luna, vv. 81-86, ivi, pp. 10-11.

24 Sepolcri, vv. 161-162, ivi, p. 244.

25 E di cui sono cosí bell’esempio le strofe 4-5 della Giovinezza. Per le quali il lettore moderno pensa ad un’esperienza alla Saba. Si osservi la didascalia iniziale della citata poesia: «Le ghiacciaie di Boissons, ecc.: Si finge di vedere ogni cosa in sogno», che indica bene quello stato di trasognamento, di estasi cui il Pindemonte tendeva volutamente.

26 Lago di Ginevra, ivi, p. 385.

27 Ivi, p. 386.

28 «L’umor di lui tira cosí un poco al melanconico, e forse la non felice salute, in cui è, lo carica di colore alquanto; ma la sua melanconia scorre molto placida e dolce, e il presentimento di quel crudo male, che lo minaccia, gli rende piú care ancora quelle villerecce delizie, di cui teme che non potrà goder a lungo» (Prose cit., pp. XIII-IV).

29 Ivi, pp. 7-8.

30 Ivi, pp. 31-32.

31 Ivi, pp. 108-109.

32 Arminio, atto IV, sc. IV, in Poesie originali cit., p. 218.

33 A parte quelle ad Omero e a Virgilio del 1809, pubblicate nella traduzione dei due primi canti dell’Odissea, ecc. (Verona 1809).

34 Poesie originali cit., pp. 89-90.

35 Sepolcri, v. 179, ivi, p. 245. Altrove: «e nella verde notte... di solitaria selva».

36 Epistola ad Apollo, ivi, p. 131.

37 Sepolcri, vv. 187-195, ivi, p. 245.

38 Sepolcri, vv. 348 ss., ivi, pp. 250-251.

39 Ultima stanza della Novella, in Novelle di Lirnesso Venosio e Polidete Melpomenio (I. Pindemonte), Napoli 1792, in Poesie originali cit., p. 468.

40 Il colpo di martello, vv. 8-11, ivi, p. 344.

41 Il colpo di martello, vv. 216-222, ivi, p. 350.

42 Espresso chiaramente nell’epistola ad Apollo, vv. 93-138, ivi, pp. 134-135.

43 Come dice nel Prologo dell’Arminio, ivi, p. 159.